Che integrazione sociale è possibile?
Il capitolo di Homelessness in Italia edito da fio.PSD preso in esame oggi argomenta i risultati di una indagine esplorativa sui percorsi di integrazione socioeconomica di un gruppo di persone senza dimora inserite in programmi di inclusione e supporto abitativo a Roma e Torino.
La domanda di partenza è: quando possiamo affermare che una persona altamente vulnerabile sia integrata socialmente ed economicamente? La domanda è importante perchè l’integrazione è l’obiettivo di servizi come quelli offerti da Cena dell’Amicizia; noi infatti accogliamo nelle nostre strutture – Casa di Alessia, Centro maschile Clemente Papi, gli appartamenti- persone senza dimora e con loro cerchiamo di stabilire un percorso che li possa portare, appunto, all’integrazione.
Le evidenze raccolte dallo studio preso in esame mostrano che l’integrazione sociale può assumere forme diverse, è un processo di lungo periodo fatto di “concessioni” con il mondo del lavoro, il mondo economico, con il sistema di relazioni e con i servizi che però porta queste persone a sentirsi “sempre con un piede dentro al mondo della homelessness”
La ricerca ha voluto quindi raccogliere informazioni su come fattori strutturali legati al contesto di vita o ai programmi di intervento sociale nei quali si è inseriti, si incrociano con fattori individuali che concorrono a o ostacolano la condizione di senza dimora. La ricerca è arrivata a sintetizzare alcuni fattori individuali, strutturali e relazionali che possono avere una funzione di leva o di barriera verso l’uscita dalla condizione di senza dimora.
Come fattori individuali favorevoli sono stati riscontrati la motivazione, la capacità di dimostrare le proprie attitudini, la capacità di valorizzare le proprie capacità, i desideri. Sono invece delle barriere l’adattamento passivo alle situazioni, la fragilità e i disturbi emotivi, la mancanza di autodeterminazione, le dipendenze e i problemi di salute
come fattori strutturali positivi abbiamo l’inserimento in percorsi abitativi, la relazione di fiducia con i servizi sociali, i laboratori di inclusione. Sono invece ostacolanti: l’inadeguatezza dei servizi. l’eccessiva standardizzazione delle risposte, la lunga attesa.
Determinante nella storia delle persone intervistate è stato il rapporto con l’assistente sociale: “ ho sentito che lei credeva in me e questo mi ha dato fiducia e voglia di fare”.
Il rapporto con il mondo del lavoro rappresenta invece un elemento ambivalente. Da una parte, insieme alla casa e agli affetti, è l’aspetto desiderato da tutti dall’altra parte, per chi lavora, le occupazioni sono per lo più saltuarie, informali, non qualificate e non qualificanti e forniscono redditi molto bassi e precari. La casa e le risposte abitative rimangono comunque le leve principali per una persona senza dimora per cambiare la propria condizione.
Nella categoria relazioni abbiamo come possibili leve: i legami con persone nella stessa situazione, i legami familiari, il passaparola, i social network. Come barriere abbiamo: la mancanza di legami familiari, la presenza di legami familiari disfunzionali, relazioni sentimentali problematiche, isolamento.
Poter contare sugli affetti ritrovati di partner o figli è una delle più grandi motivazioni dichiarate durante alcune interviste.
È risultato importante anche il rapporto con persone che vivono la stessa condizione di grave deprivazione. E’ un fattore di socialità importante; attraverso questi legami, le persone rimangono in contatto, si scambiano informazioni preziose circa i servizi e, talvolta, stringono anche amicizia.
Ma qual è il punto di vista delle persone in condizione di senza dimora sul tema dell’integrazione? L’integrazione, secondo gli intervistati, è vivere in condizioni tali da poter provare dignità e autostima con se stessi attraverso il rispetto e il riconoscimento con gli altri e il senso di utilità e responsabilità verso la società.
Conclusioni:
Dall’analisi è emerso che oggi le persone senza dimora sono figure multiproblematiche e complesse ma che si muovono liberamente e con una certa autonomia nelle città dove vivono, si vestono in modo pulito e dignitoso, alcuni di loro hanno rapporti con i genitori e con gli amici, altri sono soli. Molti di loro hanno punti di riferimento dello spazio urbano (il bar più economico, il mercatino dell’usato, le suore generose…) e riescono a trovare opportunità lavorative informali grazie al passaparola. Quasi tutti hanno un telefono cellulare e qualcuno ha un profilo Facebook. Alcuni di loro hanno un conto postale o bancario per ricevere il sussidio, la pensione o lo stipendio. Sono persone con anni di vita passati tra la strada e i servizi; tutte sono inserite in percorsi di inclusione che puntano al maggior grado di integrazione possibile. Su ognuno di loro pesano in maniera diversa le esperienze di vita fatte, gli incontri o la presenza di persone significative. Su ciascuno di loro pesa il precipitarsi degli eventi, le dipendenze, le debolezze e la forte interrelazione tra perdita del lavoro, costi insostenibili per l’alloggio, perdita della casa, senso di smarrimento e marginalità. Su ciascuno di loro pesa la lunga attesa per ottenere tutto.
Più che di integrazione sociale si piò quindi parlare di connessioni tra loro e i grandi sistemi sociali (mercato del lavoro, sistemi familiari, sistemi relazionali, mercato economico, i luoghi dell’abitare e il welfare) che li lasciano ancora con un piede dentro al mondo dei senza dimora pur continuando a desiderare di uscirne per sempre.
Bisogna altresì ricordarsi che la sfida dell’integrazione è complessa, non solo legata a fattori strutturali che rallentano o ostacolano il processo, quali il mercato del lavoro, l’atteggiamento di media e della popolazione ma anche alle emozioni delle persone. Porre l’attenzione alle percezioni individuali nell’interazione persona- contesto, più che all’emissione dei comportamenti, potrebbe essere un modo per allargare l’orizzonte sulle prospettiche che aiuterebbero l’individuo a reinserirsi nel contesto, partendo da ciò che può e vuole.